L’IMPORTANZA DELLA COMPONENTE EMOTIVA NEI DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO

 

Quando si affronta un disturbo o un deficit spesso si tende a porre maggiore attenzione alle cause e alle possibili soluzioni. Tuttavia ogni disturbo porta con sé una serie di problematiche che vanno ad aggiungersi, e spesso ad amplificare, quella principale. Questo aspetto non può essere sottovalutato quando si intraprende un percorso educativo, terapeutico o riabilitativo di qualsiasi genere ma si rende ancora più evidente nel caso dei bambini affetti da Disturbi specifici dall’Apprendimento (DSA).

Cosa sono i DSA?

I DSA sono disturbi di natura neurobiologica, che riguardano solo specifiche aree di apprendimento (lettura, scrittura e calcolo) senza compromettere l’intelligenza generale dell’individuo. Si tratta di un gruppo eterogeneo di disturbi che si manifestano in difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura, ragionamento e matematica, probabilmente dovuti a disfunzioni del sistema nervoso centrale.

L’influenza dell’ambiente sui disturbi specifici dell’apprendimento

Tuttavia, numerosi studi hanno rilevato che una buona parte dei/lle bambini/e con DSA presenta anche problematiche di tipo emotivo-relazionale. La natura di queste problematiche risiede probabilmente nella nostra società, e in particolare nel sistema scolastico. Sappiamo per certo che l’ambiente incide sempre su un disturbo specifico per cui si potrebbe e dovrebbe cominciare a ripensare e riorganizzare l’ambiente in cui i/le bambini/e apprendono e la modalità che si utilizza per insegnare. Non solo a scuola, anche in famiglia, sarebbe opportuno agire per fare in modo di contrastare il maggior numero di difficoltà possibili. La scuola in questo senso cerca di farlo. Esiste infatti il Pdp, il Piano didattico personalizzato, che però, da solo non è in grado di supportare in toto le difficoltà, come nemmeno gli strumenti compensativi e men che meno quelli dispensativi sono in grado di aiutare adeguatamente i/le bambini/le con DSA.

Tutto ciò può verificarsi soprattutto quando non è stato ancora diagnosticato il disturbo. Nell’ambiente scolastico e in quello familiare a volte si può commettere l’errore di rimproverare il/la bambino/a scambiando il suo insuccesso scolastico per disattenzione o pigrizia.

Diversi sono gli studi che hanno messo in relazione il DSA con la scarsa autostima e il senso d’inadeguatezza. Questi problemi derivano proprio dalle esperienze sperimentate dal/lla bambino/a, il quale, impegnato in prove per la quale non possiede gli strumenti adeguati, ottiene valutazioni negative e, di conseguenza, sperimenta il fallimento. Questo fallimento genera emozioni e stati d’animo negativi che comportano notevoli ripercussioni dal punto di vista emotivo e relazionale. In questo modo il soggetto interpreterà gli insuccessi come una conferma della sua inadeguatezza e probabilmente manifesterà stati emotivi negativi e frustrazione di fronte alle future prove.

È quindi importante porre maggiore attenzione a questi aspetti affinché questi/e bambini/e sviluppino la loro autostima in modo positivo e costruttivo.

Come possiamo aiutare i/le bambini/e con DSA ad accrescere la loro autostima?

Oltre a concentrarsi sui loro deficit e aiutarli in merito a questi, bisognerebbe dunque chiedersi come questi/e bambini/e vivono le loro difficoltà, cosa provano, quali sono i loro vissuti e le loro emozioni. Infatti, oltre ai deficit specifici legati al disturbo queste persone spesso portano con sé problematiche di natura emotiva, di adattamento, comportamentali, di autostima che derivano dall’osservare la loro disfunzionalità e i loro fallimenti.

Innanzitutto è necessario proporre compiti adeguati alle loro personali capacità, creando quanto più possibile un contesto di apprendimento cooperativo basato non solo sul prodotto, ovvero sul punteggio ottenuto in termini di correttezza delle prove, ma sul processo, ovvero sull’impegno. L’impegno però non deve essere inteso come “restare tanto tempo sui libri” ma come la propensione a riflettere sul materiale di studio grazie all’utilizzo di strategie efficaci per quel/la bambino/a.

Bisogna quindi intervenire sui problemi di scrittura, lettura e calcolo, ma senza tralasciare la sfera emotivo-relazionale. La diagnosi e la sua spiegazione assume un’importanza fondamentale in questo discorso. E’ necessario spiegare al/alla bambino/a in cosa consiste il disturbo  e far presente che le difficoltà da lui/lei riscontrate non sono dovute a deficit intellettivi, ma da una “neurodiversità”, ovvero che il loro cervello è costruito e funziona in modo differente da altri. E’ necessario quindi fornire tutti gli strumenti per far fronte al DSA e alla sofferenza psicologica che ne deriva.

Compito sia della scuola che della famiglia sarà quello di fornire supporto e sostegno adeguato al /alla bambino/a offrendo gli strumenti necessari per far fronte ai suoi deficit di apprendimento, sostenendo nelle difficoltà e rinforzando i suoi successi.

Educatore scolastico… Chi sei?

Il Servizio di Integrazione Scolastica del Comune di Bologna è un articolato sistema di interventi educativi finalizzati all’inclusione e alla partecipazione scolastica di centinaia di alunni con disabilità o in situazione di fragilità, frequentanti le scuole dell’infanzia, scuole primarie e secondarie del territorio. All’interno del Servizio di Integrazione lavorano alcune coordinatrici e oltre 500 educatori, dipendenti di un soggetto del privato sociale, a cui il servizio viene affidato triennalmente tramite gara d’appalto. Intervengono, con un ruolo di primo piano nella gestione del servizio, gli educatori e i responsabili del Sest (servizio educativo scolastico territoriale) e i neuropsichiatri delle Aziende di Sanità Locale. Nelle varie città italiane possiamo trovare formule diverse per la gestione dell’educativa scolastica, ma quale che sia il modello gestionale adottato, quella degli interventi educativi scolastici è una realtà che si sta consolidando e pone agli enti locali, alle cooperative, alle scuole e agli educatori stessi incaricati di svolgere il lavoro sul campo, questioni del tutto nuove rispetto al passato.

In questo articolo rifletteremo su alcune questioni attinenti all’identità professionale degli educatori scolastici, mettendole in relazione con le condizioni materiali in cui essi svolgono il proprio lavoro quotidiano.

Includere gli educatori

Leggere un titolo del genere può suscitare, in prima battuta, un po’ di disorientamento e di disappunto. “Ma non si parlava di includere gli alunni?”, “Adesso dovremmo preoccuparci anche degli educatori?”, potrebbero essere domande legittime a una prima lettura di queste righe. La scelta di questo titolo non è provocatoria e il problema messo in evidenza non è marginale.

Partiamo dalla considerazione che, come per un insegnante o un alunno, anche per un educatore fare il proprio ingresso a scuola, significa soprattutto entrare a far parte di un sistema di relazioni e di trovare una propria posizione riconosciuta e riconoscibile. Per l’educatore, l’esito di questo processo dipende dall’interazione di diversi fattori individuali, come il carattere, la personalità, la formazione, e sociali, come le aspettative che gli altri nutrono nei suoi confronti.

Oltre a queste variabili, esistono anche alcuni aspetti strutturali del servizio di cui fa parte e cioè il servizio di integrazione scolastica. I più significativi sono: 1. L ‘inquadramento della figura professionale come educatore di plesso, in modo analogo all’insegnante di sostegno, oppure come educatore di singoli alunni; 2. La scelta di inserire, o meno, tra le mansioni specifiche dell’educatore la partecipazione ai momenti di progettazione, programmazione e verifica; 3. La possibilità, per l’educatore, di gestire attività con piccoli gruppi di bambini e ragazzi sotto la propria piena responsabilità. Questi tre punti nodali emergono come sfondo di numerosi racconti degli educatori scolastici. Alcuni di essi, per esempio, mettono in evidenza il rischio che la relazione d’aiuto con i bambini in difficoltà, si trasformi in una relazione che limita il ventaglio delle interazioni con gli altri, invece che ampliarlo; altri sottolineano come, a volte, le difficoltà maggiori per l’educatore emergano nel rapporto con il contesto scolastico e le sue dinamiche; altri ancora, infine, riferiscono come alcune scelte educative importanti, vengano imposte in funzione di un assetto didattico predeterminato, senza che sia possibile aprire spazi di confronto in merito alle scelte stesse. Tali questioni, in parte, sono interessate da alcune misure adottate ultimamente nelle scuole di Bologna, tra cui, la più formalizzata e diffusa, è quella dell’educatore di plesso. Questa disposizione, vincolando maggiormente la figura dell’educatore al contesto scolastico in cui lavora, permette, in caso di assenza prolungata del minore su cui è attivato l’intervento, che l’educatore possa essere destinato ad attività alternative con altri alunni della scuola. In assenza di questa formula, trascorsi due o tre giorni di assenza dell’alunno, l’educatore dovrebbe interrompere il proprio servizio a scuola.

Presenti come elementi salienti dei resoconti degli educatori i tre aspetti strutturali del servizio di integrazione scolastica sopra menzionati tracciano una linea di demarcazione, che divide due modi differenti di intendere la figura dell’educatore scolastico. Da una parte un educatore come collaboratore esterno, che progetta e gestisce autonomamente interventi specifici rivolti ad alcuni alunni con particolari problematiche. Dall’altra un educatore strutturalmente integrato nel funzionamento scolastico, con competenze, attenzioni e progettualità specifiche, ma sostanzialmente come risorsa che appartiene al contesto in cui lavora quotidianamente. Sarà un educatore del secondo tipo, integrato e responsabilizzato rispetto ai processi e alle dinamiche scolastiche complessive, quello che potrà promuovere processi di inclusione e di attivazione di risorse interne alla classe, a beneficio di tutti gli alunni e non solo di quelli con disabilità. Sempre una figura strutturalmente integrata, riconoscibile come membro effettivo del team dagli insegnanti, potrà costruire con questi ultimi efficaci relazioni di collaborazione e passaggi circolari di conoscenze, strumenti e modalità operative. In poche parole, quanto più l’educatore sarà incluso, tanto più potrà promuovere processi di inclusione e di partecipazione autentici anche quando gli interventi siano attivati per alcuni alunni, con specifiche problematiche.

Fulvia Righi, pedagogista del Comune di Bologna, durante il  convegno del 2007, Handicap e Integrazione il ruolo dell’educatore a scuola, interveniva così: […] il valore dell’integrazione del bambino con deficit si misura effettivamente a specchio da quanto sono integrati fra di loro gli adulti che lavorano con lui, dalla consapevolezza del proprio ruolo, dal dare un senso al proprio ruolo e dal saperlo mettere in relazione con i ruoli degli altri senza pensare di dover essere e fare le stesse cose degli altri, e […] se l’educatrice a volte si fa carico lei del gruppo classe (con varie proposte come la drammatizzazione o altro) e c’è l’insegnante di classe che si fa carico del bambino o dell’allievo con deficit, cosa stiamo comunicando ai compagni? Che noi non deleghiamo in toto la relazione e gli apprendimenti ad una persona specifica, ma ce ne prendiamo cura, ce ne facciamo carico con tempi diversi, facendo cose diverse, ma lo facciamo un po’ tutti.

Tracciare contorni

In un progetto educativo, i contorni di un ruolo consentono agli altri di capire di che cosa si occupa un dato operatore, e li aiutano, in parte, a prevedere e dare significato ai suoi comportamenti. I contorni facilitano anche l’avvicinamento tra ruoli differenti che, nel momento in cui si riconoscono reciprocamente, possono confrontarsi e collaborare, con meno timori di confondere le rispettive funzioni o sentirsi minacciati l’uno dall’altro. Questo dipende dal fatto che il contorno, mentre stabilisce un limite al campo d’azione dell’operatore, consente a quel soggetto di legittimarsi, rendersi riconoscibile e sentirsi riconosciuto dagli altri.

Una frase come “ah… fai l’educatore a scuola… cioè… tipo un insegnante di sostegno, giusto?”, che plausibilmente è capitato di ascoltare, almeno una volta nella vita, a quasi tutti gli educatori scolastici, è emblematica di quanto, viceversa, questa figura professionale risulti, quantomeno per chi è esterno al mondo della scuola, piuttosto opaca e difficile da identificare. Purtroppo, a tutt’oggi, la figura dell’educatore, viene percepita e interpretata con incertezza anche dagli stessi professionisti della scuola.

Quindi, provando a entrare nel merito dell’identità dell’educatore scolastico, quali sono, o dovrebbero essere, le aree specifiche del suo campo d’azione e i suoi contorni? E’, questi, una figura che si deve occupare di didattica, oppure no? Per quali aspetti può assomigliare a un insegnante di sostegno e per quali, invece, deve differenziarsene?

Un principio generale, utile, è che, per l’educatore, l’apprendimento delle discipline curricolari non dovrebbe rappresentare uno dei suoi obiettivi, ma piuttosto un aspetto del setting[1] del suo lavoro e, soprattutto, un’occasione educativa. In quest’ottica, i percorsi di apprendimento che gli alunni affrontano quotidianamente, per l’educatore costituiscono principalmente occasioni per lavorare sui loro modi di dare significato e rispondere alle difficoltà, sulle loro capacità di fronteggiare e gestire le frustrazioni, sulla qualità delle relazioni che riescono ad instaurare con i pari e con gli adulti; in poche parole, lavorare sullo sviluppo di quelle che possono essere identificate come competenze trasversali o fattori di protezione personali. Senza avere l’intenzione di costruire steccati, che dividano le competenze degli insegnanti da quelle degli educatori è utile evidenziare come l’attenzione e il lavoro per lo sviluppo delle competenze trasversali, potrebbe, a buon titolo, costituire il territorio specifico di cui si prende cura l’educatore, in collaborazione con gli insegnanti, all’interno della più vasta esperienza scolastica di bambini e ragazzi. E poiché questo territorio variamente si intreccia con i campi d’insegnamento delle singole discipline, occorre che la collaborazione e la co-presenza dell’educatore e dell’insegnante si estendano, dal solo lavoro sul campo, anche alle fasi di progettazione, programmazione e verifica delle attività svolte.

Un secondo principio importante, in merito all’identità dell’educatore scolastico, è che questi diventi un punto di riferimento all’interno del team, per lo sviluppo delle relazioni e delle dinamiche del gruppo classe, attuando appieno la doppia dimensione dell’azione educativa, che può agire contemporaneamente sui singoli e sul gruppo, ovvero, per il cambiamento degli individui e del contesto relazionale in cui si trovano. Se apprendimento e crescita costituiscono processi individuali, che ognuno compie in maniera originale, essi sono, allo stesso tempo, processi sociali, fortemente connessi ai contesti in cui si svolgono. In questo quadro, l’educatore scolastico, che si occupa in modo specifico degli alunni con particolari fragilità, può godere di un punto di vista privilegiato su tutti gli elementi che rischiano di sganciarsi e non riuscire ad accedere alle opportunità scolastiche, così come sul funzionamento complessivo del gruppo classe, nei suoi diversi aspetti, funzionali, o meno, alla promozione della partecipazione e del benessere dei suoi componenti.

Costruire sguardi

A scuola, molti dei bambini con cui lavoriamo, attraverso i loro vissuti e i loro gesti, mettono in evidenza alcuni nodi problematici del funzionamento della vita della loro classe e della loro scuola. Con i loro comportamenti oppositivi o, al contrario, passivi, con le loro difficoltà di apprendimento o di gestione corporea, quei bambini mettono in luce alcune tematiche che, a ben guardare, riguardano anche molti altri loro compagni, e che chiamavano in causa direttamente il modo di fare scuola adottato in quel luogo e in quel momento. Se riteniamo che il compito della scuola non sia quello di normalizzare i comportamenti degli alunni, ma di promuoverne la crescita anche attraverso la trasformazione della scuola stessa, questi segnali possono essere di grande aiuto, per insegnanti ed educatori, qualora decidano di utilizzarli ai fini di valutare e riformulare le scelte didattiche ed educative generali delle loro attività.

In quest’ottica diviene possibile costruire sguardi meno statici e categorici sui bambini e sulle loro difficoltà, che un educatore o un insegnante potranno vedere sempre in relazione a qualcos’altro: una persona, un contesto, un’attività. Ne deriveranno, quindi, descrizioni relative e singolari, in grado di includere molti elementi che sfuggono alle valutazioni diagnostiche svolte in uno studio. E il lavoro di produzione di questi racconti sembra, ancora una volta, corrispondere pienamente al mandato di un educatore scolastico.

 

 

[1]     In pedagogia il setting sta a indicare la struttura organizzata degli spazi, dei tempi, delle regole, e le relazioni intercorrenti tra i diversi attori del contesto educativo