Impara l’arte. Il processo creativo nell’educazione

 “Si usano gli specchi per guardarsi il viso, e si usa l’arte per

                                                                                              guardarsi l’anima” (George Bernard Shaw)

 

Le attività grafico-figurative e plastiche sono connesse a processi percettivi, intellettivi e sociali propri delle varie fasi di sviluppo dell’individuo. In queste attività si rivelano alcune caratteristiche della capacità intellettiva e del carattere. In base a quanto detto, allora ci si domanda: “qual è il ruolo delle attività artistiche nell’educazione? Qual è il loro contributo nella formazione della personalità?” Sicuramente, nella produzione artistica c’è la convergenza delle emozioni, della percezione e del pensiero, che riconosce come inerente all’espressione il comunicare, l’uscire in qualche modo da se stessi, stabilendo un rapporto significativo con la realtà fisica e con gli altri, il considerare quindi l’arte come un fattore d’integrazione della personalità e dell’individuo con l’ambiente.

Il ruolo dell’arte nell’educazione

Poco importa se l’attività grafico-figurativa e plastica del bambino sia “arte” o meno. Per il bambino, l’arte non è la stessa cosa che per l’adulto. L’educazione artistica, non ha il compito e l’obiettivo di formare “artisti accademici” , bensì un ruolo più impegnativo, ed è quello di scoprire e sviluppare le capacità creative, presenti in ogni individuo fin dall’infanzia. Ciò indipendentemente dalle direzioni specifiche in cui esse potranno esplicarsi una volta adulto.

La produzione artistica può svolgere un compito di rilievo nello sviluppo della nostra società e merita per questo un posto non marginale nel sistema educativo.

Rapporto arte e bambino

Disegnare, dipingere o costruire costituiscono processi nei quali il bambino fonde elementi diversi del suo ambiente per ottenere un tutto nuovo e significativo. Nelle fasi di selezione, di interpretazione e di rielaborazione di questi elementi, il bambino ci dona ben più di un quadro o di un modellato; ci dona una parte di se stesso, ci rivela come pensa, come sente e come vede. Per il bambino questa è  un’attività dinamica e unificatrice.

Se osserviamo i bambini più piccoli, spesso troviamo in loro una libertà di azione che prescinde totalmente da tutte le conoscenze che l’umanità ha acquisito riguardo a quel determinato gesto. I bambini imparano a camminare senza una conoscenza intellettiva del controllo motorio implicito in quel movimento. Ciò che una persona sa, o non sa, può non avere alcun rapporto con l’azione creativa. Ci si sente dire a volte che ci sono delle fasi propedeutiche che precedono il processo creativo, e che la preparazione è il passo più importante. Tuttavia, si può notare come i bambini riescano a creare, qualunque sia il loro grado di conoscenza di cui dispongono. L’atto di creazione può fornire nuove indicazioni e nuove conoscenze per azioni ulteriori. Probabilmente la migliore preparazione per il processo creativo è l’atto creativo stesso.

L’educazione artistica, esercitata fin dai primi anni di vita, può determinare la formazione di un essere umano flessibile e creativo. Educare alla creatività significa investire sul futuro della società.

Nessun bambino deve essere considerato “incapace” di creare. In alcuni casi la creatività è nascosta sotto la superficie, ed è compito dell’adulto aiutarlo a liberarsi delle restrizioni indotte dal conformismo e dal proprio senso di insicurezza. A tutti i livelli di esecuzione creativa, essi hanno bisogno di essere incoraggiati a progredire oltre le loro capacità attuali e ad avvicinarsi quanto più possibile al conseguimento di uno spirito genuinamente creativo.

Le qualità dell’esperienza artistica

Per comprendere meglio il processo realizzativo e la sua relazione con l’ “educare” sono stati individuati dei fattori:

  • La sensibilità verso i problemi, gli atteggiamenti delle altre persone e le esperienze di vita. La capacità di usare gli occhi per vedere ma anche per osservare, le orecchie per udire ma anche per ascoltare, le mani per toccare ma anche per sentire.  Certamente questa è l’esperienza centrale nell’attività di manipolazione dei materiali artistici, nella quale la sensibilità verso una linea o forma può essere incoraggiata e sviluppata a tutti i livelli di età.
  • La scioltezza è la capacità di produrre un gran numero di idee in un breve lasso di tempo e di essere capaci di pensare velocemente e liberamente. Questa scioltezza può essere intesa sia verbale che non. Certo è che il soggetto creativo possiede la capacità di venire a capo di un problema con numerose soluzioni e idee.
  • La flessibilità nell’adattarsi a nuove soluzioni e di cambiare il proprio pensiero in maniera rapida. E’ esattamente l’opposto della rigidità, dello stato di chi è cocciutamente ostinato nel proprio atteggiamento. Il colore può versarsi o lo scalpello scivolare, chi li sta utilizzando deve adattarsi e trarre vantaggio dall’ imprevisto. L’ incidente gli potrà fornire un mutamento e un nuovo indirizzo di pensiero.
  • L’originalità probabilmente è l’attributo più noto del soggetto creativo. E’ la capacità di pensare a nuove risposte, che si colloca all’opposto di tutto ciò che è banale e scontato.
  • La ridefinizione (o riorganizzazione) è la capacità di riadattare le idee o di mutare l’uso o le funzioni degli oggetti, di vederli sotto una nuova luce. E’ apparentemente una qualità per cui si utilizza ciò che già si sa, ma per scopi nuovi e diversi. Il fatto di spostare o cambiare elementi costituisce un processo costante di riorganizzazione. La sperimentazione di materiali nuovi porta continuamente a nuove esperienze.
  • L’astrazione è la capacità di analizzare le varie parti di un problema o di vederne gli specifici rapporti.
  • La sintesi è la capacità di riassumere diversi elementi di un complesso in una nuova forma.
  • L’organizzazione è la capacità di gestire le varie parti in maniera efficiente.

Queste sono solo alcune delle qualità fondamentali di ogni esperienza artistica.

Nell’ educazione artistica, che non è da confondersi con le Belle Arti, si pone l’accento sull’effetto che i processi creativi hanno sugli individui.

L’arte come amica

In poche parole, dipingere, disegnare o costruire rappresentano processi costanti di assimilazione e creazione, mediante i quali si acquisisce attraverso i sensi, un vasto insieme di conoscenze. Queste vengono accumulate e unificate nell’Io psicologico, e utilizzate attraverso forme nuove degli elementi che appaiono adatte di volta in volta alle necessità estetiche dell’artista. E’ l’interazione tra i simboli, l’Io e l’ambiente che fornisce il materiale per i processi intellettivi astratti.

L’ uomo apprende mediante i sensi. La capacità di vedere, di sentire, di udire, di odorare e di gustare fornisce i mezzi da cui si origina una interazione tra lui  e l’ambiente. Perciò l’arte dovrebbe diventare l’amica a cui i bambini  si rivolgono con le loro gioie e i loro dolori, i loro timori e le loro frustrazioni, tutte le volte che le parole divengono inadeguate. Attraverso tali esperienze, l’espressione artistica diviene per il bambino “parte integrante di tutto il corso della vita”.

 

Comunicazione Aumentativa Alternativa e Autismo: quale legame?

 

Co’sé la Comunicazione Aumentativa Alternativa?

Con il termine Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) si intendono le modalità di comunicazione che possono aiutare le persone che hanno difficoltà a utilizzare i più comuni canali comunicativi, soprattutto il linguaggio verbale e la scrittura.

La CAA andrebbe considerata come un approccio integrato piuttosto che come una tecnica specifica, a causa della varietà di modelli e aree di applicazione in cui si è sviluppata negli anni.

Il termine Aumentativa connota la possibilità di facilitare e sostenere l’apprendimento del linguaggio verbale e lo sviluppo della consapevolezza per cui è possibile cambiare l’ambiente fisico facendo richieste all’interlocutore.

Il termine Alternativa si riferisce invece alla possibilità di apprendere codici di comunicazione alternativi a quelli basati sul linguaggio verbale, con la conseguente possibilità di utilizzare codici basati su immagini e simboli.

 

Perché usare la CAA in caso di Disturbo dello spettro autistico?

 Sebbene non rappresenti un approccio sviluppato esclusivamente per l’intervento educativo di individui con un Disturbo dello spettro autistico (DSA), l’applicazione dei sistemi di CAA basati sull’utilizzo di immagini e simboli rappresenta ad oggi uno strumento di fondamentale importanza nel trattamento delle difficoltà comunicative dei bambini con DSA.

Data la centralità dei deficit comunicativi, presenti spesso anche nelle forme di alto funzionamento cognitivo, si rende necessario fornire risposte adeguate ai bisogni educativi speciali di questi individui.

I soggetti affetti da DSA spesso non riescono a comprendere le domande dell’interlocutore e allo stesso tempo non riescono ad esprimersi con gesti e parole. Si può riscontrare anche l’incapacità di comprendere i significati delle frasi. Dunque non è possibile per loro avviare una discussione in maniera autonoma. Pertanto la CAA ha il compito di compensare tali invalidità cognitive attraverso un sistema basato su simboli e immagini che facilita la comprensione.

 L’utilizzo della CAA può essere utile anche per i bambini che hanno ricevuto una diagnosi di Sindrome di Asperger. La possibilità di condividere un codice di comunicazione basato su simboli e immagini consente difatti ai bambini con elevata funzionalità cognitiva di esprimere le proprie emozioni e desideri.

 

Un sistema CAA: l’agenda visiva

L’uso delle sequenze temporali, basato sull’utilizzo di agende visive come le tabelle di comunicazione prima-dopo, può risultare utile in qualsiasi intervento educativo orientato all’insegnamento di abilità pragmatiche e comunicative ai bambini con DSA ad alto e basso funzionamento cognitivo. Un compito fondamentale nella strutturazione del contesto educativo per questi individui è svolto dalle agende visive per l’organizzazione delle attività quotidiane, nel contesto familiare e ed educativo. La tabella di comunicazione prima-dopo permette difatti una maggiore comprensione della sequenza di attività da svolgere. I simboli relativi alle attività da svolgere prima delle altre vengono posizionati a sinistra, mentre quelli che indicano le attività successive si trovano sulla destra. Un tipico esempio è rappresentato dal simbolo del bambino seduto alla scrivania o dal simbolo della lettura (libro aperto) che in genere indica la scuola. Il simbolo corrispondente all’attività successiva (ad esempio il simbolo del pranzo) è posizionato a destra.

L’organizzazione di un contesto educativo basato su schemi visivi consente inoltre la riduzione del disagio associato alle alterazioni della percezione temporale. L’uso immediato del simbolo che rappresenta l’attività che il bambino sta svolgendo, ad esempio, ha un effetto rassicurante sulla sua percezione della quantità di tempo rimanente al termine dell’attività. La tabella prima-dopo è una forma di adattamento dell’ambiente di apprendimento allo specifico profilo cognitivo tipicamente associato ai DSA caratterizzato da rigidità e comportamenti problematici, spesso causati proprio dall’ansia di non sapere quando termineranno le attività proposte e quale sarà l’attività successiva.

 

Favorire le abilità sociali

 I sistemi di CAA possono favorire la capacità di conversazione e facilitare l’apprendimento della lingua e il suo corretto utilizzo nelle diverse circostanze. La capacità di utilizzare la lingua in modo appropriato nei diversi contesti sociali e l’abilità di iniziare e mantenere una conversazione sono aspetti carenti del bambino con DSA. Pertanto, l’uso mirato dei sistemi di CAA, potrebbe anche fornire opportunità per il miglioramento delle abilità sociali. In altre parole, le opportunità offerte dai sistemi di CAA possono contribuire allo sviluppo della comunicazione funzionale nei bambini con alto funzionamento cognitivo.

 

Prevedibilità dell’ambiente

Il profilo cognitivo dei bambini con DSA è caratterizzato da esigenze educative specifiche rappresentate dal bisogno di prevedibilità e di mantenere routines stabili.  Pertanto, i sistemi di comunicazione basati sulla CAA possono rappresentare una soluzione appropriata in risposta a questa esigenza, basata sulla responsabilizzazione del contesto ambientale. Tale contesto di apprendimento è in grado di stimolare l’iniziativa spontanea del bambino facilitando la comprensione delle istanze proposte dal sistema educativo.

 

L’utilizzo di CAA nel contesto scolastico

Le opportunità offerte da questo sistema di facilitazione della comunicazione possono essere facilmente dedotte, specialmente se la sua attuazione è promossa già dai primi anni della scuola dell’Infanzia. L’insegnante può infatti indicare sulla tabella comunicativa il simbolo corrispondente all’attività che il bambino sta facendo e i simboli delle attività seguenti per aiutarlo a comprendere la struttura temporale di ciascuna sessione di attività. In questa prospettiva, l’uso dei sistemi di CAA potrebbe essere considerato un supporto efficace all’apprendimento della comunicazione spontanea funzionale per il bambino con DSA.

L’approccio della CAA fornisce uno sfondo adeguato per l’introduzione di sistemi educativi basati sull’uso di programmi visivi e, più in generale, di tutti i sistemi che prevedono lo sfruttamento delle capacità di memoria visiva, una competenza generalmente conservata nel profilo cognitivo associato al disturbo autistico.

Grazie alla CAA, i soggetti affetti da DSA possono interagire con il mondo esterno e sentirsi liberi di comunicare. I sistemi di CAA, in altre parole, rappresentano un’opportunità di comunicazione per promuovere processi partecipativi di persone con disabilità nelle decisioni che potrebbero influenzare il loro destino, con la conseguente possibilità di favorire il loro benessere ed esercitare i loro diritti di cittadinanza.

Formazione e collaborazione: ingredienti necessari per promuovere l’ inclusione nella scuola

 

Con il termine inclusione scolastica, si intende quel processo attraverso il quale la scuola diventa un luogo che risponde ai bisogni di tutti i bambini e non solo di quelli con disabilità o con bisogni educativi speciali.
Ogni alunno ha diritto di sviluppare tutte le proprie potenzialità, usufruendo dei percorsi scolastici e formativi che gli permettano di inserirsi positivamente all interno del tessuto sociale, civile e lavorativo.
L’Italia è una nazione che promuove un sistema scolastico inclusivo, ma, nella realtà della scuola, non sempre il processo d’inclusione è attuato nel modo giusto.

Le difficoltà dell’inclusione scolastica

Chi lavora nella scuola da un po’ di tempo, si renderà facilmente colto dell’esistenza di numerose difficoltà che si incontrano, non solo per quanto riguarda l’inclusione degli alunni disabili, ma anche di altri bambini con bisogni speciali come, per esempio, quelli che vengono da paesi svantaggi dal punto di vista socio-economico, minoranze etniche, oppure che, nonostante presentino difficoltà di apprendimento, non hanno i requisiti sufficienti ad avviare le pratiche per una certificazione.

Tra le difficoltà che maggiormente si riscontrano, ne saranno citate due di particolare importanza: la scarsa collaborazione che, talvolta, emerge tra i soggetti coinvolti nello sviluppo e nella crescita dei bambini (come insegnanti, educatori, genitori e, nel caso di alunni disabili o seguiti dai servizi sociali, anche altre figure professionali esterne al contesto scolastico) e la mancanza di una formazione adeguata di alcuni insegnanti sui temi dell’educazione socio-emotiva e dell’inclusione scolastica.

Collaborazione e confronto

Per quanto riguarda il primo punto, è possibile osservare come, nella scuola, sia ancora troppo presente la divisione tra i soggetti che la “abitano”: insegnante di sostegno ed educatore dovrebbero lavorare costantemente con l’insegnante curricolare, per confrontarsi sulle problematiche che emergono nella classe e non solo occuparsi del bambino disabile a cui sono stati assegnati. Queste tre figure professionali, possiedono competenze diverse tra loro ed è tale diversità, che va intesa come una ricchezza, a permettere di avviare un reale processo d’inclusione. È quindi necessario che insegnanti ed educatori lavorino in team, che condividano idee, che portino le proprie competenze specifiche e che si supportino a vicenda affinché le strategie proposte vengano applicate. Naturalmente, perché ciò avvenga, sarebbe necessario avere a disposizione momenti in cui sia possibile tale confronto e rendere questi momenti obbligatori ma, purtroppo, il sistema attuale non prevede questo tipo lavoro, soprattutto perché l’educatore è sprovvisto di ore da dedicare alla programmazione con gli insegnanti.

Oltre a questo, spesso si riscontra riluttanza, da parte di ognuno dei tre soggetti, ad accogliere i suggerimenti proposti dagli altri, in parte perché implicherebbe l’adozione di modalità e strategie educative e di insegnamento diverse da quelle a cui si è abituati, in parte perché significherebbe far entrare nel proprio spazio di lavoro un’altra persona. Queste resistenze potrebbero provenire da qualunque dei soggetti coinvolti: alcuni insegnanti curricolari vivono come un’invasione al proprio lavoro dover utilizzare le strategie proposte dall’insegnante di sostegno o dall’educatore, anche se utili allo sviluppo del processo inclusivo. Allo stesso modo, diversi educatori non sono disposti ad occuparsi della didattica, perché pensano che non sia di loro competenza o perché non si sentono sufficientemente preparati per occuparsene, nonostante spesso sia impossibile scindere il lavoro educativo da quello sugli apprendimenti, soprattutto in un’ottica di’inclusione del bambino.
Talvolta anche l’insegnante di sostegno non accetta di buon grado i consigli dell’educatore su quali siano le migliori strategie educative da utilizzare per svolgere al meglio il lavoro con l’alunno disabile al quale entrambi sono stati assegnati.

Queste rigidità non fanno altro che rallentare il processo d’inclusione, quando invece la disponibilità a collaborare e ad accettare le idee di chi lavora insieme a noi sarebbe il modo migliore per acquisire strategie efficaci.

A tal proposito, in un’interessante intervista pubblicata in una rivista che tratta temi riguardanti l’inclusione, (Morganti A. , Bisogni umani, evidenze e collaborazione in rete: le chiavi per promuovere l’inclusione, “Difficoltà di Apprendimento e Didattica Inclusiva”, vol.6, n.1, pp. 119-127, Erickson, 2018), l’intervistato David Mitchell ( Professore Aggiunto al College of Education, Università di Canterbury, Christchurch, Nuova Zelanda), spiegava che sarebbe di grande aiuto per insegnanti ed educatori, che:
1) in ogni scuola ci fosse un responsabile, un leader della ricerca, con il compito di identificare quali problemi ci siano, ad esempio il giusto programma da seguire con alunni che hanno una certa disabilità o che presentino specifiche problematiche;
2) in ogni Nazione ci fosse una clearing house, ovvero un posto in cui, attraverso la ricerca, si individuano le pratiche, gli interventi, le strategie migliori da mettere in atto per casi specifici e dove il ricercatore responsabile possa andare, fare domande, chiedere consigli in relazione alle problematiche riscontrare e raccogliere informazioni da riportare a scuola.
In questo modo, sarebbe possibile fornire ad insegnanti ed educatori le strategie più efficaci con l’obbligo, da parte della scuola, di applicarle cosicché si possa continuare a registrare, raccogliere ed analizzare i dati. Così sarebbe possibile costruire una ricerca di base per la clearing house e, quindi, per le scuole.
Un sistema di questo tipo, non solo permetterebbe di accedere alle migliori strategie individuate dalla ricerca, ma assicurerebbe la loro applicazione. All’inizio potrebbe essere vissuto da molti insegnanti ed educatori come una costrizione, ma nel tempo sarebbe visto come una ricchezza e un’opportunità di imparare metodi innovativi e, quindi, un modo per essere costantemente aggiornati.

Formazione

Riguardo a questo ultimo punto, riprendiamo la seconda difficoltà citata all’inizio dell’articolo e cioè la mancanza di una formazione adeguata di alcuni insegnanti sui temi dell’educazione socio-emotiva e dell’inclusione scolastica.
Sarebbe importante e doveroso che ogni insegnante, curricolare o di sostegno, e ogni educatore fosse formato per promuovere l’inclusione. Un’inclusione che non riguardi solo la disabilità, ma tutti i bambini, nella loro unicità. La scuola dovrebbe spostarsi verso un apprendimento personalizzato e, quindi, verso un insegnamento individualizzato. In questo senso è necessaria non solo una formazione specifica, ma anche un continuo aggiornamento. Attraverso una giusta formazione, si può scoprire che molte delle strategie nate per aiutare i bambini con disabilità o con bisogni speciali, possono essere adatte a tutti i bambini. E allo stesso tempo che ne esistono altre rivolte alla classe che sono facilmente adattabili, apportando alcune modifiche, ai singoli casi.
Per fare questo, insegnanti ed educatori devono mettere in campo tutta la loro capacità di giudizio, in modo da capire come la strategia scelta possa essere personalizzata affinché sia efficace.

La ricchezza dell’inclusione

In conclusione, per promuovere l’inclusione all’interno della scuola, sarebbe necessaria molta flessibilità da parte di tutti gli attori coinvolti e soprattutto collaborazione, disponibilità ad ascoltare chi ha una formazione diversa dalla nostra e considerare tale diversità una ricchezza, un’opportunità per imparare. Solo mescolando le differenti competenze e mantenendosi sempre aggiornati sarà possibile individuare le strategie migliori per rispondere ai bisogni di tutti i bambini, individuando le caratteristiche, i punti forza e le fragilità di ognuno.

DIAMO VOCE AL CORPO

DIAMO VOCE AL CORPO

Laboratorio ludico espressivo creativo per bambini da 7 a 10  anni

Ogni bambino è un insieme di risorse, limiti, potenzialità, conoscenze e saperi maturati nei primissimi anni di vita attraverso i sensi, il corpo in gioco e in movimento, e la voce… una speciale creatività e unicità nello scoprire il mondo e la vita.  Emerge l’importanza di dare significanza al corpo e alla voce nelle loro caratteristiche fisiche, tono, ampiezza, velocità, volume in quanto portatrici degli stati interiori, delle emozioni e del sapere.

Fare esperienza del corpo e della voce nella loro tensione ludica permette di tuffarsi nella dimensione emotiva ed affettiva. Attraverso attività ludiche le emozioni del bambino possono trovare un canale per esprimersi fluidamente e un contenitore corporeo che le tiene, controllandole ma senza trattenerle. Perché abbiano questa funzione, le attività devono promuovere: immaginazione, spontaneità, pensiero divergente, umorismo, espansione affettiva, socializzazione, riconoscimento dell’identità del bambino.

 In un contesto ludico di cooperazione e relazione, immaginazione e musica, esploreremo i vari canali di comunicazione, giocheremo con il corpo, con la voce e con le emozioni.

DURATA – 7 incontri settimanali di un’ora ciascuno

QUANDO – Ogni sabato dalle 11.00 alle 12.00 (7-14-28 marzo, 4-18 aprile, 9-16 maggio)

DOVE – Studio Danza Ensemble, via Saragat 5 – Bologna

Per info e iscrizioni: telefono 3384314884 o  info@officina-educativa.it

Educatore scolastico… Chi sei?

Il Servizio di Integrazione Scolastica del Comune di Bologna è un articolato sistema di interventi educativi finalizzati all’inclusione e alla partecipazione scolastica di centinaia di alunni con disabilità o in situazione di fragilità, frequentanti le scuole dell’infanzia, scuole primarie e secondarie del territorio. All’interno del Servizio di Integrazione lavorano alcune coordinatrici e oltre 500 educatori, dipendenti di un soggetto del privato sociale, a cui il servizio viene affidato triennalmente tramite gara d’appalto. Intervengono, con un ruolo di primo piano nella gestione del servizio, gli educatori e i responsabili del Sest (servizio educativo scolastico territoriale) e i neuropsichiatri delle Aziende di Sanità Locale. Nelle varie città italiane possiamo trovare formule diverse per la gestione dell’educativa scolastica, ma quale che sia il modello gestionale adottato, quella degli interventi educativi scolastici è una realtà che si sta consolidando e pone agli enti locali, alle cooperative, alle scuole e agli educatori stessi incaricati di svolgere il lavoro sul campo, questioni del tutto nuove rispetto al passato.

In questo articolo rifletteremo su alcune questioni attinenti all’identità professionale degli educatori scolastici, mettendole in relazione con le condizioni materiali in cui essi svolgono il proprio lavoro quotidiano.

Includere gli educatori

Leggere un titolo del genere può suscitare, in prima battuta, un po’ di disorientamento e di disappunto. “Ma non si parlava di includere gli alunni?”, “Adesso dovremmo preoccuparci anche degli educatori?”, potrebbero essere domande legittime a una prima lettura di queste righe. La scelta di questo titolo non è provocatoria e il problema messo in evidenza non è marginale.

Partiamo dalla considerazione che, come per un insegnante o un alunno, anche per un educatore fare il proprio ingresso a scuola, significa soprattutto entrare a far parte di un sistema di relazioni e di trovare una propria posizione riconosciuta e riconoscibile. Per l’educatore, l’esito di questo processo dipende dall’interazione di diversi fattori individuali, come il carattere, la personalità, la formazione, e sociali, come le aspettative che gli altri nutrono nei suoi confronti.

Oltre a queste variabili, esistono anche alcuni aspetti strutturali del servizio di cui fa parte e cioè il servizio di integrazione scolastica. I più significativi sono: 1. L ‘inquadramento della figura professionale come educatore di plesso, in modo analogo all’insegnante di sostegno, oppure come educatore di singoli alunni; 2. La scelta di inserire, o meno, tra le mansioni specifiche dell’educatore la partecipazione ai momenti di progettazione, programmazione e verifica; 3. La possibilità, per l’educatore, di gestire attività con piccoli gruppi di bambini e ragazzi sotto la propria piena responsabilità. Questi tre punti nodali emergono come sfondo di numerosi racconti degli educatori scolastici. Alcuni di essi, per esempio, mettono in evidenza il rischio che la relazione d’aiuto con i bambini in difficoltà, si trasformi in una relazione che limita il ventaglio delle interazioni con gli altri, invece che ampliarlo; altri sottolineano come, a volte, le difficoltà maggiori per l’educatore emergano nel rapporto con il contesto scolastico e le sue dinamiche; altri ancora, infine, riferiscono come alcune scelte educative importanti, vengano imposte in funzione di un assetto didattico predeterminato, senza che sia possibile aprire spazi di confronto in merito alle scelte stesse. Tali questioni, in parte, sono interessate da alcune misure adottate ultimamente nelle scuole di Bologna, tra cui, la più formalizzata e diffusa, è quella dell’educatore di plesso. Questa disposizione, vincolando maggiormente la figura dell’educatore al contesto scolastico in cui lavora, permette, in caso di assenza prolungata del minore su cui è attivato l’intervento, che l’educatore possa essere destinato ad attività alternative con altri alunni della scuola. In assenza di questa formula, trascorsi due o tre giorni di assenza dell’alunno, l’educatore dovrebbe interrompere il proprio servizio a scuola.

Presenti come elementi salienti dei resoconti degli educatori i tre aspetti strutturali del servizio di integrazione scolastica sopra menzionati tracciano una linea di demarcazione, che divide due modi differenti di intendere la figura dell’educatore scolastico. Da una parte un educatore come collaboratore esterno, che progetta e gestisce autonomamente interventi specifici rivolti ad alcuni alunni con particolari problematiche. Dall’altra un educatore strutturalmente integrato nel funzionamento scolastico, con competenze, attenzioni e progettualità specifiche, ma sostanzialmente come risorsa che appartiene al contesto in cui lavora quotidianamente. Sarà un educatore del secondo tipo, integrato e responsabilizzato rispetto ai processi e alle dinamiche scolastiche complessive, quello che potrà promuovere processi di inclusione e di attivazione di risorse interne alla classe, a beneficio di tutti gli alunni e non solo di quelli con disabilità. Sempre una figura strutturalmente integrata, riconoscibile come membro effettivo del team dagli insegnanti, potrà costruire con questi ultimi efficaci relazioni di collaborazione e passaggi circolari di conoscenze, strumenti e modalità operative. In poche parole, quanto più l’educatore sarà incluso, tanto più potrà promuovere processi di inclusione e di partecipazione autentici anche quando gli interventi siano attivati per alcuni alunni, con specifiche problematiche.

Fulvia Righi, pedagogista del Comune di Bologna, durante il  convegno del 2007, Handicap e Integrazione il ruolo dell’educatore a scuola, interveniva così: […] il valore dell’integrazione del bambino con deficit si misura effettivamente a specchio da quanto sono integrati fra di loro gli adulti che lavorano con lui, dalla consapevolezza del proprio ruolo, dal dare un senso al proprio ruolo e dal saperlo mettere in relazione con i ruoli degli altri senza pensare di dover essere e fare le stesse cose degli altri, e […] se l’educatrice a volte si fa carico lei del gruppo classe (con varie proposte come la drammatizzazione o altro) e c’è l’insegnante di classe che si fa carico del bambino o dell’allievo con deficit, cosa stiamo comunicando ai compagni? Che noi non deleghiamo in toto la relazione e gli apprendimenti ad una persona specifica, ma ce ne prendiamo cura, ce ne facciamo carico con tempi diversi, facendo cose diverse, ma lo facciamo un po’ tutti.

Tracciare contorni

In un progetto educativo, i contorni di un ruolo consentono agli altri di capire di che cosa si occupa un dato operatore, e li aiutano, in parte, a prevedere e dare significato ai suoi comportamenti. I contorni facilitano anche l’avvicinamento tra ruoli differenti che, nel momento in cui si riconoscono reciprocamente, possono confrontarsi e collaborare, con meno timori di confondere le rispettive funzioni o sentirsi minacciati l’uno dall’altro. Questo dipende dal fatto che il contorno, mentre stabilisce un limite al campo d’azione dell’operatore, consente a quel soggetto di legittimarsi, rendersi riconoscibile e sentirsi riconosciuto dagli altri.

Una frase come “ah… fai l’educatore a scuola… cioè… tipo un insegnante di sostegno, giusto?”, che plausibilmente è capitato di ascoltare, almeno una volta nella vita, a quasi tutti gli educatori scolastici, è emblematica di quanto, viceversa, questa figura professionale risulti, quantomeno per chi è esterno al mondo della scuola, piuttosto opaca e difficile da identificare. Purtroppo, a tutt’oggi, la figura dell’educatore, viene percepita e interpretata con incertezza anche dagli stessi professionisti della scuola.

Quindi, provando a entrare nel merito dell’identità dell’educatore scolastico, quali sono, o dovrebbero essere, le aree specifiche del suo campo d’azione e i suoi contorni? E’, questi, una figura che si deve occupare di didattica, oppure no? Per quali aspetti può assomigliare a un insegnante di sostegno e per quali, invece, deve differenziarsene?

Un principio generale, utile, è che, per l’educatore, l’apprendimento delle discipline curricolari non dovrebbe rappresentare uno dei suoi obiettivi, ma piuttosto un aspetto del setting[1] del suo lavoro e, soprattutto, un’occasione educativa. In quest’ottica, i percorsi di apprendimento che gli alunni affrontano quotidianamente, per l’educatore costituiscono principalmente occasioni per lavorare sui loro modi di dare significato e rispondere alle difficoltà, sulle loro capacità di fronteggiare e gestire le frustrazioni, sulla qualità delle relazioni che riescono ad instaurare con i pari e con gli adulti; in poche parole, lavorare sullo sviluppo di quelle che possono essere identificate come competenze trasversali o fattori di protezione personali. Senza avere l’intenzione di costruire steccati, che dividano le competenze degli insegnanti da quelle degli educatori è utile evidenziare come l’attenzione e il lavoro per lo sviluppo delle competenze trasversali, potrebbe, a buon titolo, costituire il territorio specifico di cui si prende cura l’educatore, in collaborazione con gli insegnanti, all’interno della più vasta esperienza scolastica di bambini e ragazzi. E poiché questo territorio variamente si intreccia con i campi d’insegnamento delle singole discipline, occorre che la collaborazione e la co-presenza dell’educatore e dell’insegnante si estendano, dal solo lavoro sul campo, anche alle fasi di progettazione, programmazione e verifica delle attività svolte.

Un secondo principio importante, in merito all’identità dell’educatore scolastico, è che questi diventi un punto di riferimento all’interno del team, per lo sviluppo delle relazioni e delle dinamiche del gruppo classe, attuando appieno la doppia dimensione dell’azione educativa, che può agire contemporaneamente sui singoli e sul gruppo, ovvero, per il cambiamento degli individui e del contesto relazionale in cui si trovano. Se apprendimento e crescita costituiscono processi individuali, che ognuno compie in maniera originale, essi sono, allo stesso tempo, processi sociali, fortemente connessi ai contesti in cui si svolgono. In questo quadro, l’educatore scolastico, che si occupa in modo specifico degli alunni con particolari fragilità, può godere di un punto di vista privilegiato su tutti gli elementi che rischiano di sganciarsi e non riuscire ad accedere alle opportunità scolastiche, così come sul funzionamento complessivo del gruppo classe, nei suoi diversi aspetti, funzionali, o meno, alla promozione della partecipazione e del benessere dei suoi componenti.

Costruire sguardi

A scuola, molti dei bambini con cui lavoriamo, attraverso i loro vissuti e i loro gesti, mettono in evidenza alcuni nodi problematici del funzionamento della vita della loro classe e della loro scuola. Con i loro comportamenti oppositivi o, al contrario, passivi, con le loro difficoltà di apprendimento o di gestione corporea, quei bambini mettono in luce alcune tematiche che, a ben guardare, riguardano anche molti altri loro compagni, e che chiamavano in causa direttamente il modo di fare scuola adottato in quel luogo e in quel momento. Se riteniamo che il compito della scuola non sia quello di normalizzare i comportamenti degli alunni, ma di promuoverne la crescita anche attraverso la trasformazione della scuola stessa, questi segnali possono essere di grande aiuto, per insegnanti ed educatori, qualora decidano di utilizzarli ai fini di valutare e riformulare le scelte didattiche ed educative generali delle loro attività.

In quest’ottica diviene possibile costruire sguardi meno statici e categorici sui bambini e sulle loro difficoltà, che un educatore o un insegnante potranno vedere sempre in relazione a qualcos’altro: una persona, un contesto, un’attività. Ne deriveranno, quindi, descrizioni relative e singolari, in grado di includere molti elementi che sfuggono alle valutazioni diagnostiche svolte in uno studio. E il lavoro di produzione di questi racconti sembra, ancora una volta, corrispondere pienamente al mandato di un educatore scolastico.

 

 

[1]     In pedagogia il setting sta a indicare la struttura organizzata degli spazi, dei tempi, delle regole, e le relazioni intercorrenti tra i diversi attori del contesto educativo